“Antigone” di Elsa Morante – in “Serata a Colono”

Rappresentata per la prima volta con la regia di Mario Martone e l’interpretazione di Carlo Cecchi, fraterno amico di Elsa Morante.

La serata a Colono è stata in tournée in varie città dopo la prima al Teatro Stabile di Torino il 15/1/2013.

 

Il personaggio di Antigone “la divina Antigone, la più nobile eroina apparsa sulla terra”, secondo Hegel, è una delle grandi figure femminili del teatro greco, un fertile archetipo intorno a cui sono sorte molte e interessanti rivisitazioni, oggetto di numerosi studi nonché di un nuovo genere di critica che va sotto il nome di “Reception studies”.[1]

Personaggio piuttosto sbiadito nei frammenti del mito tebano, Antigone, così come la conosciamo, è un’elaborazione del poeta tragico Sofocle, l’intrepida donna che, in nome del diritto alla pietà, all’amore disinteressato, alla carità, osa contrapporsi a Creonte, il re di Tebe, che ha vietato la sepoltura del fratello Polinice. è anche la fanciulla forte e solenne che, nell’Edipo a Colono,  leva il suo lamento funebre per il padre scomparso, una delle più alte espressioni di dolore e d’amore che la poesia abbia mai elaborato.

Ecco, questo personaggio che agisce in nome dell’amore, in nome di quelle leggi non scritte che non sono né di ieri né di oggi ma che da sempre vivono nel cuore dell’uomo, assume un’importanza tutta particolare per Elsa Morante che ne fa la protagonista dell’unico testo teatrale da lei scritto.

Ci riferiamo a La serata a Colono, che fa parte del testo Il mondo salvato dai ragazzini, un volume diviso in tre sezioni (Addio-La commedia chimica- Canzoni popolari), che raccoglie una dozzina di testi che variano per misura e tipo spaziando dal racconto in poesia alla canzone in versi.

Dato alle stampe nel ’68, è un libro che rappresenta un momento centrale nella poetica dell’autrice e che segna una svolta fondamentale nella sua visione del mondo. Sono gli anni in cui la scrittrice si trova a riflettere sul senso della propria attività letteraria e a rivedere la propria funzione all’interno della società italiana profondamente trasformata dal boom economico e minacciata dalla corsa agli armamenti nucleari tra le potenze del mondo. Posto in posizione semicentrale rispetto alle tre sezioni, La serata a Colono è un atto unico in cui è evidente l’influsso del teatro di Artaud. Si presenta come una parodia, così la definisce l’autrice, nel senso di un abbassamento, di uno sdradicamento della vicenda sofoclea, dalla dimensione mitica ad una distorta quotidianità odierna, senza tuttavia sottrarle nulla della sua dolorosa connotazione tragica. Una parodia dolorosa, quindi, in cui la Morante si cimenta in autonomia rispetto al mito, contaminandolo con varianti originali, rendendo i personaggi latori di una sua concezione esistenziale e culturale.

Non siamo più a Colono né nel bosco delle Eumenidi ma in una corsia di ospedale, in un corridoio attiguo al reparto neuro-deliri ed Antigone non è la fanciulla forte e solenne delle tragedie sofoclee ma una “povera guaglioncella mal cresciuta che in faccia ha i segni dolci e scostanti delle creature di mente un poco tardiva”. è un’analfabeta che parla in un linguaggio elementare costruito sulla contaminazione di una pluralità di dialetti dell’area meridionale, inanellando lunghe proposizioni tipiche dell’oralità popolare, con l’uso insistente di formule assertive, del “che” polifunzionale, del periodo ipotetico con la protasi all’indicativo. Questa fanciulla accompagna il padre cieco, un uomo di nome Edipo, trasandato, logorroico, in preda ad allucinazioni, che parla un linguaggio aulico, sovrabbondante, accesamente metaforico.

Eliminati i personaggi di Creonte, Polinice, del re Teseo, ridotto il coro ad un brusio di voci di malati dementi che ripetono ossessivamente luoghi comuni, frasi fatte, con effetti di non sense, la Morante crea una struttura testuale in cui gli unici protagonisti restano Antigone ed Edipo.

è un Edipo tragicamente monologante la cui colpa non è imputabile all’incesto e al parricidio, non  inscritta, dunque, nei territori dei fatti ma in quelli dell’etica. Si configura nelle forme della “presunzione dell’intelletto”[2] che, lungi dall’esaurire i problemi dell’uomo e del suo destino, altri ne crea, nuovi e più profondi. è un Edipo che soffre per gli inganni subiti nella sua ansia di conoscenza e la sua è una sofferenza che si allarga a comprendere “Tebi e Gerusalemmi, polis e city”, la condizione umana di ogni età, quella dei tempi del “carro olimpico”, come quella del “fungo atomico”. È un uomo che, nel suo delirio, reclama di aver visto l’irrealtà di “grattacieli di vetro, di navi lunari, di Hiroscime, dentro un frastuono di lingue e passi e cantieri”; un uomo che assorbe e consuma su di sé la colpa e il dolore del mondo[3]. Diventa egli stesso simbolo della follia, della cecità di una cultura di morte, quella che Elsa chiama l’Irrealtà. Il “drago dell’irrealtà”, come il Moloch di Allain Ginsberg, è la mostruosa civiltà tecnologica i cui prodotti supremi sono da una parte le organizzazioni di sterminio, la corsa agli armamenti, dall’altra l’alienazione introdotta dal cieco progresso industriale.

Ecco, a questo Edipo si oppone Antigone con la sua psicologia elementare, con la sua candida semplicità, con la diversità del suo linguaggio popolaresco, che non si uniforma ai modi linguistici dominanti. La nostra scrittrice conosce bene il passato di questa nobile creatura eppure la getta sulla scena come un burattino, senza memoria né storica né culturale[4]. Sì perché questa zingarella semibarbara deve rappresentare una possibile articolata alternativa al pensiero espresso da Edipo, opporre alla chiusa disperazione dell’uomo le sue ragioni del cuore. “Antigone -scrive la Morante in un manoscritto del 14 maggio 1966- deve smentire Edipo, senza saperlo, nel senso che la vita ogni giorno con il suo mistero è al tempo stesso simbolo del suo mistero, e l’uomo non se ne accorge perché il suo stesso destino è questo, cioè cecità, sordità”.

Ecco, allora, che Antigone, nella squallida corsia, inventa per Edipo scenari di riposo e di calma, giardini verdeggianti, chioschetti di palme e di fontane, cancelletti di rose, come contraltare affettivo e lieto alla chiusa disperazione del padre. Gli parla con il suo linguaggio sgrammaticato, legato strettamente al sentimento, che sfugge alle censure della ragione, e lo conforta con la sua profonda pietas e la sua popolare saggezza. Al delirio solipsistico del padre, che vorrebbe non essere mai nato, oppone la sua realistica visione della vita, della vecchiaia, della morte, il suo buon senso senza mediazioni che custodisce in sé la risposta all’enigma della Sfinge. Sarà lei il “bastone” della sua vecchiaia, per stargli vicino, per custodirlo,  felice di vivere solo per poter svolgere questo compito, di annullare il proprio io, di essere un semplice strumento in nome dell’amore[5].

Ed è proprio in virtù di questa attenzione e di cura che il personaggio acquista spessore e dignità. Questa figura semplice di ragazzina che agisce e pensa secondo la “politica dell’amore”, un amore genuino per ciò che la persona è e non per ciò che potrebbe e dovrebbe essere, diventa l’elemento di “grazia” del libro (nel senso weiliano), il contravveleno dell’ombra e della sventura, della “irrealtà di un mondo dominato dall’ingiustizia e dalla violenza”.

Alla fine del dramma, Edipo scompare nel buio; sulla scena resta l’urlo disperato della figlia che sa che il padre non si è salvato. Ma il personaggio di Antigone non muore. Tornerà sotto altri travestimenti nella terza sezione, quella dedicata alle Canzoni popolari, sarà il Galileo[6], Rufo che aiutò il Cristo a portare la croce[7]; avrà come fratello putativo il Pazzariello, il riccioluto fautore dell’allegro disordine, contro ogni forma di sopraffazione, intimidazione, oppressione, antitetico alla  Grande Opera, la grottesca allegoria del potere che cerca invano di eliminarlo[8].

Antigone appartiene alla schiera dei “ragazzini”, gli unici in grado di salvare il mondo dal “caos dell’irrealtà”. Sono essi il cuore mai domato dell’umanità, appartengono ad ogni età, possono trovarsi ovunque; rappresentano il “sale della terra”, la forza della giovinezza reale o dell’anima, slancio vitale e gioioso, inno ad una vita relazionale, non necessariamente conflittuale e violenta. Elsa li arruola al servizio di una sua personalissima utopia, lontana da qualsiasi adesione a gruppi politici; ne fa i latori di una sua visione del mondo governato dalla gioia, dai valori autentici e spontanei rappresentati dagli umili, dagli esclusi, dall’amore incondizionato per ogni aspetto dell’esistenza.

Solo chi ama conosce. Povero chi non ama.

  Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori”.

Con questi versi iniziali della raccolta di poesia Alibi (1955) ci sembra opportuno chiudere il nostro tributo alla memoria di questa grande scrittrice.

Jolanda Leccese

(Pubblicato su Leggere Donna n° 160, 2013)


[1]      Cfr. Sotera Fornaro, L’ora di Antigone dal nazismo agli anni di piombo. Drama: Studien zum antiken Drama und seiner Rezeption,Tübingen: Gunter Narr Verlag, 2012

[2]      Elsa Morante, Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, 2 voll., Mondadori, 1990-2012; “il cervello è una macchina furba e idiota, che la/ natura ci ha fabbricato studiandola apposta/ per escluderci dallo spettacolo reale e divertirsi ai/ nostri equivoci”, la citazione è tratta da “La serata a Colono” in Il mondo salvato dai ragazzini, vol.II, pag. 65.

[3]      “La serata a Colono” cit., pag. 69, “Forse, io sono il corpo d’ogni antenato e/ d’ogni progenitura”.

[4]      Cfr. Elisa Donzelli, Il mito nel testo, Bulzoni, 2007.

[5]      “La serata a Colono” cit, pag. 75, “pure se sono nata per dover morire/ cono contenta d’essere nata/ …/ sono contenta e specialmente a voi pa’ adesso che/ siete vecchio/ io ci penzo che se non ero nata chi ci stava con voi per/ custodirvi che quello è disastro/ per la vecchiaia….”.

[6]      “La canzone degli F.P. e degli I.M.” in Il mondo salvato dai ragazzini cit., pag. 148, “La trave di comune legnaccio/ su cui per la virtù sacramentale del Fariseo/ un giovane Galileo blasfemo/ ha consumato la sua morte patibolare/ nell’aprile dell’anno Trentatré/ s’è bagnata di una tale freschezza sanguinosa/ che in un’eterna rivoluzione fantastica/ rigemma a tutte le estati!…”

[7]      “La canzone della Forca” in Il mondo salvato dai ragazzini cit., p. 165 sgg.

[8]      “ La canzone clandestina della Grande Opera” in Il mondo salvato dai ragazzini cit., p. 182 sgg.