SURREALISMO SVIZZERA

Dalla parte di Lei

Pubblicato su Leggere Donna 184

Gli intriganti foto-collage di Henriette Grindat che presentano nudi e volti femminili in paesaggi irreali, la spazialità onirica delle foto di Eva Wipf, le tinte brillanti degli oli su tela di Sonia Sekula che sembrano collocarsi esattamente nel punto di congiunzione tra il surrealismo europeo e l’espressionismo astratto americano. Sembrano ricordi che riaffiorano da sogni le figure rappresentate nelle colorate gouaches su carta di Ilse Weber.

Queste alcune delle opere presentate al MASI di Lugano nella mostra Surrealismo Svizzera, che ha chiuso i battenti nel giugno u.s.. Una mostra dedicata esclusivamente al surrealismo svizzero che ha presentato i principali artisti svizzeri che hanno influenzato il Surrealismo sia come membri effettivi del movimento parigino sia come portavoce del movimento e animatori di gruppi progressisti in Svizzera: Gruppe 33 e Allianz.

Perché parlarne dopo la chiusura? Perché, alla fine di ogni esposizione è sempre necessaria una riflessione come regola generale non solo per chi opera nel mondo dell’arte ma anche perché, nel nostro caso, è possibile ripercorrere un piccolo ma affascinante itinerario dalla parte delle artiste presentate, dalla parte di Lei: come a parziale risarcimento per il silenzio che grava su un mondo solitamente ignorato dalle riflessioni della critica contemporanea e dalle strutture museali più influenti.

Sono per lo più sconosciuti, infatti, i nomi delle artiste, diverse per età e per formazione. Alcune non aderirono esplicitamente al movimento, si dimostrarono, tuttavia, vicine ad esso per affinità di temi e di linguaggio.

Come Anita Spinelli, artista ticinese (Balerna, 1908) formatasi nella fervida scena artistica milanese dei primi anni Trenta ma giunta, nella sua opera più tarda, ad un linguaggio figurativo che evocava un mondo irreale.

Come Eva Wipf (S. Angelo do Paraiso, 1929) che, anche se non ascrivibile ad un gruppo preciso, pur si avvicina alla poetica surrealista (vissuta tra Zurigo e Brugg) con le sue foto che creano spazialità oniriche, con i suoi collages, con i suoi contenitori di oggetti inseriti in strutture a cassettoni, concepiti non come semplici artefatti, ma come reliquie dalla forte simbologia religiosa all’interno di un contesto di vita spirituale.

Ma c’è anche chi scopre il Surrealismo leggendo la rivista “Minotaure”, frequentando un corso di fotografia a Losanna (dove era nata nel 1923) presso la scuola di Gertrud Fehr. E’ Henriette Grindat, una vera scoperta. E’ tra le prime fotografe che nell’immediato dopoguerra prende le distanze dalla fotografia puramente pubblicitaria e documentaria. Padrona di tecniche sperimentali quali il montaggio, la dissolvenza, la solarizzazione, polarizza intorno al suo lavoro l’interesse e l’ammirazione di artisti e scrittori nella cerchia dei surrealisti a Parigi, dove si trasferisce nel ‘48. Un’attività intensa la sua, che alla collaborazione tra le principali riviste fotografiche del tempo unisce la produzione di opere legate a scrittori e poeti (Camus, Francis Pange), la pubblicazione di fotografie di viaggio in Algeria, in Italia, in Spagna (nel 2010 le è stata dedicata la mostra Méditerranées presso il museo storico di Losanna).

Vivere e lavorare all’estero, sembra essere questa la formula giusta per raggiungere fama internazionale, anche per Isabelle Waldberg (nata Farner, 1911) che da Zurigo si trasferisce a Parigi nel 1936. “Isabelle scolpisce, ascolta, si nasconde ed esulta” dice di lei Marcel Duchamp che Isabelle frequenta a Parigi insieme a Giacometti, André Masson, Patrick Waldberg che diventerà suo marito.

Poche parole per descrivere la personalità ricca e complessa di questa artista, la prima donna ad essere chiamata nel 1973 ad insegnare scultura alla Scuola Nazionale delle Belle Arti. Un’artista dalla solida formazione intellettuale acquisita grazie agli studi di etnologia e sociologia, ma anche politicamente impegnata (l’unica donna ad aderire alla società segreta antifascista Acéphale). Soprattutto un’artista partecipe di una stagione fondamentale per la storia dell’arte contemporanea grazie alla sua frequentazione assidua di artisti e letterati dell’ambiente surrealista, a Parigi e successivamente a New York (1942-46) negli anni dell’esilio (invitata da Peggy ad esporre nella sua famosa galleria).

Poche le opere in mostra. Il Ritratto di Duchamp resta testimonianza di una eredità surrealista ancora presente nel ‘78.

Ma è Meret Oppenheim, tedesca di nascita (Charlottenburg, 1913), svizzera di adozione, la prima tra le artiste presentate ad entrare in contatto con i surrealisti. A soli vent’anni è già nella cerchia del movimento grazie all’amicizia con Giacometti e Duchamp. Musa e modella di Man Ray, lei femme-enfant, dimostra ben presto con la sua famosa Tazza in pelliccia (1936) di essere in sintonia con il pensiero di Breton su la “Situazione surrealista dell’oggetto”. Vicina al movimento non per spirito di emulazione, ma perché in esso ritrovava una sensibilità simile alla sua, è stata una delle artiste più eclettiche del secolo scorso per la varietà dei temi, dei materiali e delle tecniche. Un’artista che ha rappresentato gli aspetti fondamentali del Surrealismo: il figurativo come l’astratto. Meret è presente nella collettiva di Lugano in proporzioni fortemente minoritarie che possono apparire irrispettose riguardo alla qualità ed alla quantità delle sue opere, ma che, tuttavia, permettono di conoscere diversi momenti e aspetti del suo processo creativo, dagli esordi degli anni Trenta fino alle esperienze degli anni Settanta ed oltre. Dagli anni intercorsi tra L’angelo sterminatore (1931), violenta sovversione dello stereotipo di moglie e madre, L’orecchio di Giacometti (in stile curiosamente Art Nouveau) e la Venere preistorica (entrambe nel 1933 e successivamente rielaborate), alla serie realizzata con la tecnica del cadavre exquis, fantasy destabilizzanti, tracce di un’azione ludica in cui a volte il titolo diventa sintagma fondamentale (Il re è caduto nella relatività, 1971).

A colpire il visitatore sono le figure femminili negli oli realizzati dopo il ‘38. Esseri ibridi, acefali, che si trasformano in pietre, in entità arboree, in un metamorfismo in cui l’umano e il naturale si confondono pur restando intatta la connessione con la realtà esterna: la donna che si fa di pietra come paralizzata nei movimenti (Donna di pietra, 1938); la donna le cui gambe si stagliano in primo piano, impietrite, come frantumate, in opposizione ad una luce abbagliante (Sole, Luna, Stelle,1942). Raccontano di avversità, di desiderio e speranza di pace come in Guerra e Pace (1943) in cui predominano tinte cupe in contrasto con l’unico punto di luce bianca e chiarissima all’orizzonte. Sono gli anni dell’avanzata del Nazional Socialismo, della guerra, della crisi personale ed economica di Meret costretta a lasciare Parigi per Basilea.

E poi, colorata, disorientante, ecco Oktavia, una scultura-dipinto del ‘69, realizzata nella città di Berna dove si è trasferita. Una sorta di idolo ieratico-ironico che, nel dettaglio dell’occhio, assimilato ad una maschera sembra alludere alle esperienze teatrali da lei realizzate in collaborazione con Pablo Picasso. Ancora un volto di donna: è Meret, con il suo Autoritratto (sagoma e spray in fotografia, 1980) che, nella versione della litografia su carta, è giunto agli Uffizi nel 2005 con la collezione Rezzonico. Un volto invecchiato, ma sempre affascinante, tatuato come quello di una sciamana indiana; un volto di sacrale compostezza che chiama a sé tradizione e storia, con il potere metaforico, forse, di nobilitare, con i tatuaggi, le rughe.

Jolanda Leccese