Intervista a Anna Ottani Cavina

Ho conosciuto, per la prima volta, per la prima volta il nome di Anna Ottani Cavina, nel 2001, in occasione della mostra a Mantova, da lei progettata e diretta, dal titolo molto suggestivo, “Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot”. Una mostra tesa a rivalutare, accanto agli artisti più noti e consacrati da un’interrotta fortuna, altri rimasti ai margini. Fu, per me, un vero colpo di fulmine che mi fece scoprire il la pittura di paesaggio e una studiosa di fama mondiale.

Anna Ottani Cavina è una fra le più importanti studiose della Pittura di Paesaggio, impegnata da molto tempo in ricerche sul vedutismo tra Illuminismo e Romanticismo.

Insegnante di Storia dell’Arte Moderna all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins University (Bologna Center), è anche direttrice della Fondazione Zeri dell’Università di Bologna (www.fondazionezeri.unibo.it).

Insignita della Légion d’honneur nel 2001, divide il suo tempo fra un marito, tre figli e gli impegni di lavoro che spaziano da una produzione saggistica dall’impronta molto personale (I paesaggi della ragione, Einaudi 1994) a organizzazioni di mostre, convegni che la portano spesso in giro per l’Italia e all’estero.

Numerose le sue pubblicazioni: da quelle sul tema specifico del Paesaggio (La Pittura di Paesaggio in Italia. Il Settecento, Milano 2005), alle monografie su artisti del Settecento (Felice Giani e la cultura di fine Settecento, 2 voll. Milano 2000) ai cataloghi che accompagnano le mostre da lei dirette, preziosi testi di consultazione per la ricchezza delle informazioni e gli approfondimenti critici. Da citare, in particolare, la prima edizione italiana de I Diari di viaggio di Thomas Jones (1742-1803), un documento fondamentale e gustosissimo della civiltà del Grand Tour in Italia, redatto da un paesaggista di genio che ha pagato a lungo “con la solitudine l’anomalia della sua intelligenza”.

È una signora affabile e cordiale quella che incontro a Villa Medici sede dell’Académie de France, in occasione dell’inaugurazione della mostra, da lei curata e diretta, dedicata a Marius Granet, un paesista provenzale che a Roma trascorse quasi una vita, ben ventidue anni (1802-1824), “un sogno che ho a lungo coltivato, mi dice iniziando la sua conversazione, nel cerchio della cultura italo-francese, con l’appoggio solidale di Marc Fumaroli e di Benedetta Craveri”.

Cominciamo, allora, la nostra intervista partendo proprio da questa mostra.

Lei ne parla come di una “esposizione che vuol introdurre l’artista da un’angolazione confidenziale e segreta. Un’ottica molto particolare che vorremmo lei ci chiarisse.

L’esposizione Granet muove da una premessa, che è quella di far conoscere il lavoro del pittore andando dietro le quinte: non i dipinti finiti, destinati alla vendita, ma gli studi, i bozzetti, il lungo lavoro di sperimentazione e ricerca. Un lavoro che rimarrà fino alla fine privato, salvando l’improvvisazione e la freschezza.

In questa sua modalità di presentazione dell’artista, si avverte, al di là della competenza scientifica, un’intensa partecipazione da parte sua, un’empatia, a volte un’emozione. La stessa impressione è possibile ricavare leggendo la sua monografia su Thomas Jones. È una sensazione o una realtà?

Si sceglie un artista, gli si dedica tempo e passione, lo si conosce più a fondo, si entra nella sua storia. E’ inevitabile a quel punto sentirlo vicino e schierarsi con lui. Difficilmente la critica è oggettiva, perché dal passato si estraggono sempre e soltanto alcuni dei significati nascosti. La critica dunque è soggettiva, ma io credo che, al di là dei contenuti, la buona critica sia anche una questione di forma, di lingua.

Dopo l’immersione “in medias res”, cerchiamo di conoscere le motivazioni che l’hanno portata a scegliere di dedicarsi allo studio del paesaggio.

In realtà ho cominciato studiando i pittori di figura, i pittori del Seicento nella cerchia di Caravaggio. Poi, lavorando soprattutto in area francese, il tema del paesaggio mi ha molto affascinato per gli anni di fine Settecento, che sono anni di cambiamenti cruciali, nella società e nella cultura. In questo ambito, il mio libro più importante è uscito nel 1994 nei saggi Einaudi. Si intitola “I paesaggi della ragione”.

Ci racconti qualcosa dei suoi libri, di qualche scoperta interessante in cui si è imbattuta, nel consultare documenti inediti.

In tema di paesaggio, tengo molto a una ricerca che ho condotto anni fa. Verte sui rapporti fra arte e scienza, sugli scambi reciproci fra il dipinto di un artista tedesco attivo a Roma, Adam Elsheimer, e le scoperte scientifiche di Galileo, nei primissimi anni del Seicento. Il pittore ha dipinto una Fuga in Egitto ambientata nel buio della notte. Sedotto dalle scoperte di Galileo, ha raffigurato un cielo stellato come non si era mai visto, una vera cartografia celeste, con la Via Lattea osservata con il telescopio (è rappresentata come aggregazione di stelle e non come nebulosa) e la luna con i crateri e le macchie lunari. Molti anni fa avevo studiato questo dipinto e ipotizzato questo rapporto del pittore con Galileo. Di recente gli astronomi del Deutsches Museum di Monaco, attraverso una serie di simulazioni realizzate al computer, hanno provato l’esattezza di questa ipotesi e addirittura indicato la notte di luna piena in cui a Roma si sarebbe visto il cielo di Elsheimer, con quel preciso rapporto fra le costellazioni. Era la notte del 16 giugno 1609.

Sono tanti i pittori di paesaggio; e pittrici ce ne sono? O sono poco rappresentate? Io conosco soltanto il nome di Marianna Candidi Dionigi, presentata a Roma nella mostra del 2001 “La campagna romana da Hackert a Balla”. Vuole aggiungere qualche altra notizia?

Anche a me sembra strana l’assenza delle donne in un ambito (la pittura ad acquerello) così aperto e accessibile.

Mi risulta, dalle mie esperienze (in particolare quella che ho fatto recentemente durante la mostra di Ducros a Taranto) che l’argomento “pittura di paesaggio” è ancora ignorato da un gran numero di persone, anche da quelle interessate all’arte. Da che cosa dipende questo?

Lei ha ragione in qualche misura: c’è molto più interesse per la pittura di storia o per il ritratto. Oggi però, per varie ragioni, legate a problematiche contemporanee, il paesaggio e la natura stanno di nuovo intercettando l’attenzione del pubblico colto.

Ed ora lasciamo l’argomento specifico del paesaggio e passiamo alla sua attività nell’ambito dell’Università. Sono numerose le allieve che frequentano i suoi corsi? Quali interessi vede emergere in loro ? Ce ne sono interessate, in particolare, alla pittura di paesaggio?

Nei miei corsi universitari, dove gli studenti si contano a centinaia, passano molti ragazzi che attraversano l’esame di storia dell’arte per approdare poi a carriere diverse. Non seguiranno una formazione specialistica. In molti casi però hanno un backgroud di cultura generale e degli entusiasmi per la mia disciplina che costituiscono una componente preziosa nella loro maturazione professionale.

Sul piano della ricerca, trova utile il rapporto con le colleghe?

Naturalmente è corretto dire di sì, ma la verità è che in un mondo in cui la comunicazione è veloce e non ha limiti, è possibile scegliersi interlocutori anche molto lontani e dialogare, attraverso i libri o con le persone, al di là dei colleghi che compongono il nostro piccolo gruppo accademico. Debbo riconoscere che mi hanno insegnato molte cose e mi hanno fatto amare questo mestiere studiosi che vivono nelle università e nei musei molto lontano da qui, generosi anche sul piano delle idee.

Quali sono i suoi progetti futuri?

Ho in cantiere alcuni libri: sulla pittura francese del Settecento e su alcune figure illustri della critica del Novecento. Sono anche molto presa dalla direzione della Fondazione Federico Zeri, un centro di ricerca in Storia dell’arte, legato all’università di Bologna, cui Zeri ha lasciato l’immensa sua biblioteca e la sua fototeca. Il Centro è aperto alla consultazione, il 10 ottobre inaugureremo a Bologna una mostra importante dedicata alla figura di Zeri e al suo metodo.

Vorrei chiudere citando un brano di una pagina da lei scritta, nel suo Saggio introduttivo al Catalogo “Un paese incantato” della mostra già citata: “un po’ per gioco e molto per nostalgia, e anche per capire come lavorava un pittore sulle vie del plein air, abbiamo fatto di nuovo quel viaggio. Quasi uguale, fra le pianure, i fiumi, i paesi che, lontani dalle autostrade di oggi, sono ancora seducenti e intatti: il Tevere, il sole, le gole a strapiombo sopra i torrenti, e pergolati e cortili e piccoli fiori d’antan cresciuti nei vasi di coccio. Altrove invece i luoghi sono stati violati. Non ci sono più gli orti, le vigne e fra le arcate del Ponte romano di Narni, inquadrato fra i campi del grande Corot, sfreccia metallico un treno Eurostar. Mentre alcune delle ville in rovina, che gli acquerelli di Robert Cozens hanno reso fiabesche e struggenti, appartengono ormai agli uccelli della notte”. È un linguaggio, il suo, caldo, colorato, evocativo. Non è il linguaggio di un noioso manuale ma rivela in lei, un’affabulatrice di gran razza, una scrittrice che sa conferire alle pagine un’aura di poesia e di bellezza atemporale. Ci salutiamo dandoci appuntamento a Bologna, per il 10 ottobre di quest’anno.

Jolanda Leccese

Pubblicato su “Leggere Donna”, n. 142 – settembre-ottobre 2009