Lila de Nobili

Accade spesso, sicuramente a molti di noi, di rimpiangere di non essersi imbattuti nell’occasione di incontrare un personaggio importante: persone la cui esistenza non è stata una “svista” ma che hanno creato il tessuto intellettuale dell’epoca in cui sono stati sorteggiate a vivere; persone, a noi contemporanee, che potevano essere raggiungibili, se non direttamente, almeno attraverso la conoscenza delle loro opere.

E’ questa la sensazione che ho provato davanti al nome di Lila de Nobili, a me ignota fino ad ora e scoperta recentemente. Ignorata dal grande pubblico, Lila è stata l’ultima grande rappresentante della tela dipinta a teatro. La sua presenza ha lasciato il segno nella storia dello spettacolo e della scenografia, un’arte troppo spesso intesa solo nel suo valore funzionale: sottovalutazione questa  che in Italia pesa anche sul versante della conservazione, della documentazione nonché dell’informazione. Se è vero che la figura della donna artista va cercata in molteplici direzioni che non siano solo quelle contemplate dalla gerarchia canonica dei generi artistici, la figura di Lila de Nobili si colloca a pieno titolo nella storia dell’arte, di quella particolare nicchia che è la storia della scenografia teatrale, che abbraccia nel suo insieme il testo, l’architettura, la musica, la pittura.

L’occasione di incontrare una personalità così straordinaria ci viene offerta da una mostra organizzata a Villa Medici che riunisce tre grandi figure della scena italiana moderna: Damiani, de Nobili, Tosi (fino al 2 Aprile 2006, Cat. Skira).

Poco o nulla si sa della vita privata di Lila de Nobili. Stravagante, o meglio eccentrica, come la definisce Alvar Gonzalez-Palacios, nel suo saggio in catalogo, preferì tenersi in disparte “Dava e diceva di se quel che poteva, o meglio, quel che voleva – e forse è la stessa cosa”.

Era una donna minuta ma di forte complessione fisica. Sotto una testa di capelli scuri e crespi i fianchi apparivano ben costruiti, si notavano soprattutto le mani lunghe e nodose che sapevano compiere quelle meraviglie che sciorinava sulla carta o sulle tele per dipingere. Di famiglia antifascista (era nata a Castagnola, in Svizzera nel 1916), negli anni 40 disegna moda per Vogue e Hermès; poi l’attività scenografica per il teatro – Luchino Visconti, Peter Hall, Franco Zefirelli. Infine, dall’inizio degli anni 70, la riconversione alla pittura pura.

“L’Itinerario di Lila” – il primo dei saggi presentati in catalogo, del critico d’arte Alvar Gonzalez-Palacios gia citato, attraversa lieve la storia di questa artista tendendo un filo limpido di raccordo tra la ricostruzione delle tappe più importanti della sua vita, la sua formazione, i metodi di lavoro, i rapporti con gli amici, e la riflessione sulle opere esposte: scenografie, bozzetti, ritratti, paesaggi e vedute pressoché ignoti. Lila sapeva creare magie dall’Aida alla Scala di Milano, con la regia di Franco Zefirelli, al Mercante di Venezia di Shakespeare, a Roma, al Falstaff, con la regia di Luigi Squarzina, alla Manon Lescaut di Puccini, con la regia di Visconti, a Spoleto nel 1973, fino ai disegni più semplici, buttati giù per caso, per subitanea ispirazione. Fu la Manon l’ultima regia d’opera di Visconti e, da quell’anno, Lila non lavorò più per il teatro.

Nei figurini, nei bozzetti per le scene, si dispiega la sua vena pittorica, la sua capacità di evocare atmosfere ed ambienti soprattutto attraverso il colore e le sfumature nelle quali eccelleva. Non le manca certo la cultura. Saper rendere il gusto esatto di un’epoca è il suo impegno costante, alimentato dalle letture e dall’interesse e dal confronto continuo con i pittori del passato. Da Velasquez a Goya, a Delacroix, ma anche gli Impressionisti dell’Ottocento, del “suo” Ottocento, quello borghese, che ignora l’Art Nouveau.

Una mostra bellissima per il duplice livello di lettura: per il contesto, certo, ma anche per una riflessione sul ruolo di primo piano rivestito da una donna in un’attività, quale è appunto la scenografia, che esige sforzi titanici se è vero che, sul parallelepipedo vuoto della scena, ogni scenografo deve cimentarsi con l’organizzazione di uno spazio, al prezzo di una fatica che non tutti sono capaci di sopportare a lungo. L’occhio del visitatore trascorre dalle visioni cupe della Carmen, che riflettono l’influenza di Goya, al Ruy Blas, in cui si avverte il gusto per la pittura spagnola del 600, alla varietà delle scene della Manon: il trionfo degli ori dell’Alcova, su una nube di lenzuola, cuscini, piumini; la tristezza delle Halles coperte , del bozzetto per il terzo atto, dove sono parcheggiate le emigranti. E poi ci sono le deliziose figurine della Traviata, con la suntuosa varietà degli abiti, in cui appare evidente il debito con gli Impressionisti (è risaputo che Visconti volle che l’azione si svolgesse verso la fine dell’800). Sorprende la luminosità a forti tocchi dei magnifici bozzetti delle scene, sempre della stessa opera, “le più raffinate e seducenti”, come le definì Carlo Maria Giulini che ne fu il direttore musicale. Sembrano destinate ad essere viste più da lontano che da vicino.

L’attenzione meticolosa ai particolari del proprio lavoro, porterà l’artista, passati i sessantanni, a frequentare, a Bruxelles, i corsi di un anziano artefice, Van der Kellen, che insegnava a contraffare marmi e vari altri tipi di materie. Pur non essendo più giovane segue corsi serali di disegno tecnico e prospettiva, come auditrice, con modestia e discrezione. La sua vita, nell’ultimo ventennio del secolo e i due del secolo successivo (muore a Parigi nel 2002), non deve essere stata gioiosa in seguito alla sordità e alla vecchiaia. Lei che era stata artista anche nello stile di vita, nel modo di vestirsi, di stare con la gente, si allontana poco a poco dal mondo, voltando per sempre le spalle al teatro. Finisce  i suoi giorni sola, curva, circondata dai suoi gatti con i quali si era rifugiata a vivere sempre a Parigi, in un abbaino di due stanze, all’ultimo piano di Rue Verneuil, a Saint-Germain des Prés.

L’amico e confidente Dino Trappetti,che insieme a Gioia Fiorella Mariani e a François Regnault ha curato la mostra, ci consegna un suo indimenticabile ritratto con queste poche parole: “Figlia di una gitana ungherese e di un padre italo-svizzero, è vissuta alla francese, d’arte, mici e fiori”.

Jolanda Leccese