NEL BIANCO – di Simona Vinci

“Ogni rilettura aggiunge conoscenza”

A distanza di dodici anni dalla prima pubblicazione (Rizzoli 2008), Simona Vinci ripropone, per i tipi d casa editrice Neri Pozza, il libro “Nel Bianco”. Un’occasione per rileggere pagine di un libro di viaggio, e non solo, che rielabora l’esperienza vissuta dalla scrittrice nel villaggio di Tasilaq, un piccolo villaggio della Groelandia. Ne riproponiamo la recensione appara sulle pagine della rivista, nel lontano 2009. E’ cambiata la veste grafica; non più una balena stilizzata su fondo nero, al suo posto un orso polare in un paesaggio artico che sembra doversi sciogliere. Ma è soprattutto cambiata la situazione di questa Terra, minacciata dall’incremento di viaggi low-cost e dall’aumento delle temperature globali che ne compromettono il delicato ecosistema.

                                                          Pubblicato su Leggere-Donna n° 189, Ottobre-Novembre-Dicembre 2020

Il viaggio come esperienza irrinunciabile: ce lo hanno detto mille volte che è smarrimento salutare, esilio intenso e volontario, percezione e conoscenza originale del mondo. Si viaggia per motivi turistici, per scopi professionali, per il desiderio di essere altrove, che equivale -oggi soprattutto- a essere libero e solo, per andare alla ricerca di se stessi. “Ogni vero viaggio, afferma Simona Vinci, presuppone la disponibilità ad accettare l’imprevisto, qualunque esso sia, anche quello di non sapere più di preciso chi si era prima di partire”. Simona Vinci, scrittrice ben nota, ha recentemente dato alle stampe per i tipi della Rizzoli, un libro molto interessante: Nel Bianco. Parla, nel libro, di un viaggio che l’ha portata lontano, vicino al 67esimo parallelo, in Islanda, e, successivamente, in Groenlandia, nell’isola più grande del mondo. Un viaggio nel “cuore gelato del mondo” con il suo carico di ansie e di fatiche (ben otto gli aerei da prendere), che ha richiesto energie straordinarie e straordinarie passioni. Simona non è una turista per caso, una di quelle che si sposta con leggerezza, né una sciatrice desiderosa di sport estremi. Il suo viaggio viene da lontano: da solitari pomeriggi di inverno passati a leggere Zanna Bianca di Jack London o Un sogno ai confini del mondo di Jurji Rytcheu, il primo scrittore ciukco siberiano tradotto in tutto il mondo; o a giocare con la barbie eschimese, con gli occhi allungati, un anorak bianco e rosso e kamik come calzature. È certamente una viaggiatrice fuori dagli schemi quella che, dopo una sosta di una settimana in Islanda, giunge a Tasiilaq, nella Groenlandia orientale; non ha il piglio sbarazzino di chi si sente protetta dal gruppo né la protervia del viaggiatore egocentrico. Ponendosi sulle orme dell’etnologo e scrittore Knud Rasmussen, sa che l’unico modo corretto di agire tra gente sconosciuta, in un luogo sconosciuto, è quello di cercare le tracce degli uomini che lo abitano, vivere semplicemente tra di loro, guardare, ascoltare, camminare senza una meta. Più di ogni altra cosa vuole incontrare persone e dare loro vita. Eccola nella scuola, a parlare con Sanne, Mathias, Sakkak, ad indagare su come ci si sente ad essere adolescente in un posto “in cui non esistono cinema né teatri e dove l’unico luogo di ritrovo è una via di mezzo tra una cartolibreria ed una gelateria”. Eccola in ospedale ad informarsi sulle patologie più frequenti, sull’alto tasso di inquinamento, riscontrato dagli studi, nel latte materno delle donne inuit. E poi eccola, en plein air, a camminare per il paese, a visitare il cimitero (non si può capire fino in fondo la Città dei vivi se non si va a vedere la Città dei morti), a descrivere la natura grandiosa e terribile dei ghiacciai, a raccontare di corse in slitta, di passeggiate solitarie, a piedi, verso “la fuga infinita di collinette ricoperte di neve, verso il mare punteggiato di ghiaccio: immagine di sogno, delirio, tempo senza tempo, Luce”. La nostra scrittrice sa di aver intrapreso un genere antico, quello del libro di viaggio, e lo scrive a modo suo, a misura di se stessa, del suo temperamento: mescolando considerazioni di esploratori e notizie sulla loro vita a riferimenti letterari. Procedendo fra descrizioni di luoghi, verifiche esistenziali, narrazioni di storie, L’ultimo vichingo, Dove finisce l’ombra, Senza nome. Arrivano all’improvviso, presentate, a volte, con diverse modalità di prosa, ma non interrompono l’attenzione perché inserite perfettamente nella trama del discorso. Essere scrittrice, per Simona Vinci, vuol dire “avere tanti posti nel mondo, tanti quante le immagini che ti si incastrano negli occhi e lì cominciano a gemmare e sbocciare e poi a intessersi in storie e storie di altre storie e ancora storie”. Strutturate con sapienza compositiva, le storie presentate sembrano incorollarsi su una Storia sola, su quello che è il nucleo centrale del libro: la storia del popolo inuit, che “non hanno mai costruito cattedrali, palazzi, strade, si sono avventurati nel mondo consapevoli di essere solo un elemento naturale fra i tanti, legati alle altre specie animali da un patto così intenso e profondo da sentirsi in dovere di chiedere ogni volta scusa allo spirito dell’animale ucciso nella caccia”. La storia di un popolo, oggi pericolosamente esposto sul crinale tra due culture, che attraversa quasi anonimamente il libro, con le sue tradizioni, le sue credenze, i suoi riti. La storia dolente di una minoranza emarginata che, dopo la vittoria del sì nel referendum per l’Indipendenza della Groenlandia, si sta incamminando verso un futuro in cui non mancano le ombre minacciose di “nuovi padroni”.

                                                                                                                      Jolanda Leccese

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